Il recente trionfo agli Oscar del film “Red Rocket” di Sean Baker ha portato la Russia a festeggiare, nonostante la sconfitta del suo rappresentante, Yura Borisov, la bodyguard dal cuore tenero di Anora. La cerimonia ha acceso i riflettori su un attore che, pur non avendo conquistato la statuetta, ha ricevuto apprezzamenti significativi, tra cui quello di Robert Downey Jr. Tuttavia, la notizia ha suscitato anche polemiche e discussioni, specialmente in Ucraina, dove la figura di Borisov è stata percepita come simbolo di una normalizzazione culturale con il paese invasore.
Un aspetto intrigante emerso dal successo di “Red Rocket” è il collegamento, seppur vago, con Vladimir Putin, legato alla mansion di Basin Mill a Brooklyn, utilizzata per le riprese del film. Questa lussuosa villa, un tempo di proprietà dell’oligarca dell’alluminio Vasily Anisimov, è attualmente di proprietà di Michael Davidoff, un finanziere di origini russe. La villa, costruita con grande opulenza, si trova in un quartiere dove molti russi benestanti hanno scelto di stabilirsi, aumentando la curiosità attorno ai legami tra il mondo dell’arte e quello degli oligarchi.
Mentre in America si celebrava il cinema, in Russia gli Oscar hanno fatto notizia nei tg di stato per la prima volta dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina. I media hanno dedicato ampio spazio al cast del film e alla candidatura di Borisov, il primo russo a essere nominato agli Oscar in oltre quarant’anni. Un commentatore pro-Putin ha addirittura affermato su Telegram che “la cultura russa non può essere cancellata” e ha predetto che l’Occidente dovrà affrontare la resilienza culturale della Russia.
D’altro canto, la reazione in Ucraina è stata contraria. Gli ucraini hanno visto nella candidatura di Borisov, spesso definito “il Ryan Gosling russo”, un segno di una normalizzazione della cultura russa, che oggi è in netto contrasto con la realtà del conflitto in corso. La figura di Borisov, sebbene non abbia mai esplicitamente sostenuto l’invasione, è comunque associata a ruoli che promuovono una narrativa patriottica, come il biopic su Mikhail Kalashnikov, l’inventore dell’AK-47, girato in parte in Crimea dopo l’annessione del 2014.
In un contesto di crescente repressione della libertà di espressione in Russia, la situazione di Borisov e della sua co-star Mark Eydelshteyn appare ben diversa. Entrambi gli attori non hanno preso posizione pubblicamente contro l’invasione, mantenendo un profilo basso che consente loro di navigare tra i mondi di Russia e Occidente senza subire ripercussioni. Tuttavia, il clima di paura crescente nella patria di Borisov è evidente: la critica cinematografica Ekaterina Barabash è stata arrestata dai servizi di sicurezza russi per aver diffuso “informazioni deliberatamente false” sull’esercito e rischia ora una condanna fino a dieci anni di carcere.
Il panorama cinematografico russo, quindi, si presenta come un campo minato, dove l’arte e il potere si intrecciano in modi complessi e talvolta pericolosi. Mentre Borisov e Eydelshteyn godono di fama e successo a Hollywood, il loro status di “eroi in patria”, come descritto dall’autore e sceneggiatore Michael Idov, solleva interrogativi sulla responsabilità degli artisti di fronte a un regime autoritario.
Il contrasto tra la celebrazione del talento e le dure realtà politiche in Russia mette in evidenza le sfide che molti artisti affrontano. La villa di Basin Mill, con la sua storia intricata che collega il mondo dell’arte al potere oligarchico russo, diventa così un simbolo delle complessità del cinema contemporaneo e delle sue intersezioni con la politica internazionale. In questo contesto, la figura di Borisov, sebbene non vincitore di un premio Oscar, rappresenta una narrativa più ampia: quella di un’industria cinematografica russa che cerca di ritagliarsi uno spazio nel panorama culturale globale, mentre combatte con le ombre del suo passato e del presente.
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