Forse a causa del “blackout”, un “gioco” di sfida estrema sul web, a Milano Igor Maj, 14 anni, è stato trovato senza vita nel primo pomeriggio di giovedì scorso 6 settembre nella cameretta dell’appartamento familiare: una corda da montagna agganciata al letto a castello lo ha soffocato. Secondo quanto scrivono sul Giorno Daniele De Salvo e Nicola Palma, inizialmente si era pensato al drammatico suicidio di un adolescente, ma poi sarebbe emerso qualcosa di ancor più tremendo e inspiegabile: Igor avrebbe perso la vita spingendosi troppo in là nella tragica sfida del blackout, una pratica che consiste nel soffocarsi da soli per perdere i sensi e sperimentare le stesse sensazioni che si provano quando si sta morendo o l’euforia di quando ci si trova senza ossigeno a 7 mila metri di quota.
Tutto si sarebbe compiuto nel giro di dieci minuti, riporta ancora il Giorno: sul caso sono ancora in corso le indagini dei carabinieri, tuttavia sembra si fa strada la pista del gioco estremo, da condividere poi sul web, il blackout, appunto. Il 14enne si sarebbe spinto fino al livello 5: avrebbe dovuto perdere i sensi per poi risvegliarsi nel giro di una manciata di secondi, ma non è andata così. Una storia che i genitori di Igor hanno deciso di raccontare, rivolgendosi a tutti i genitori, per far sì che episodi del genere non si ripetano, tramite un appello lanciato dal profilo Facebook de “I Ragni di Lecco”.Si era parlato di blackout anche nel febbraio scorso, quando un 14enne era stato trovato in fin di vita nel bagno di casa a Tivoli, in provincia di Roma, strangolato dal cavo della PlayStation; nonostante i soccorsi immediati, il ragazzo era morto qualche giorno dopo nel reparto di Terapia intensiva dell’ospedale Gemelli. E non è forse errato accostare il blackout ad altre pratiche suicide che in Italia e nel resto d’Europa hanno fatto proseliti fra gli adolescenti, come il Blue Whale (balena blu): un “gioco” criminale, forse per fortuna meno diffuso di quanto in un primo tempo si fosse detto e scritto, a causa del quale alcuni ragazzi si “affidano” sul web e sui social media a dei “tutor” che li obbligano a prove di autolesionismo sempre più pericolose, fino anche alla morte.
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