“Mafia non è solo sangue. Ma potere, consenso, relazioni…”. Intervista a Bruno De Stefano

La criminalità organizzata che investe nell’economia legale miliardi di euro in imprese, centri commerciali e negozi dando lavoro a migliaia di persone; cittadini che in tutta Italia sostengono le mafie perché si mettono in affari con esse e ne traggono benefici; la “trattativa Stato-mafia” che ogni giorno, nel silenzio, in molte parti d’Italia, le istituzioni compiono davvero. Conversazione controcorrente con il giornalista e scrittore Bruno De Stefano – Premio Siani, ultimo libro: “I boss che hanno cambiato la storia della malavita” (Newton Compton) – su cosa è, quanto conta, come influenza le nostre vite lo strapotere di mafia, camorra e ‘ndrangheta.

Lo scorso 3 settembre, 35° anniversario dell’omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa, è stata tolta la scorta al capitano Ultimo, l’uomo che arrestò Totò Riina, uno dei mandanti dell’assassinio del generale. Come valuta questa scelta?

Totò Riina, arrestato dal capitano Ultimo nel 1993, è morto, e il cognato Leoluca Bagarella è in carcere dal 1995. Ultimo non dovrebbe temere, quindi. Invece mi pare di aver capito che si ritenga ancora in pericolo di vita. E sono in tanti che sostengono la stessa cosa denunciando la revoca della scorta a un vero servitore dello Stato. Se così fosse credo che sarebbe gravissimo. Vorrebbe dire avere la certezza che in 23 anni non è cambiato nulla nella lotta alla mafia, perché uno come Ultimo deve ancora guardarsi dal potere di vecchi boss al 41bis.

Capaci e Via D’Amelio rappresenno le stragi più eclatanti e devastanti mai accadute. Come è cambiato da allora il potere mafioso in Italia?

Faccia un passo indietro e si chieda: dopo Capaci e Via D’Amelio nel ’92 e le stragi di Firenze, Milano e Roma del ’93 cos’altro deve accadere perché la mafia venga sconfitta e cessi di esistere? Possibile che esistano boss, come Matteo Messina Denaro, ancora latitanti? Comunque sì, la mafia oggi è qualcosa di diverso da quella stragista che si affermò tanti anni fa.

Perché, quali sono le caratteristiche della mafia oggi?

Non ha più bisogno di sparare; ha un grado di penetrazione totale nell’economia legale in cui reinveste i proventi miliardari del traffico di droga o dei rifiuti aprendo attività imprenditoriali con i crismi della legge; non ci sono più i boss alla Totò Riina né c’è più bisogno della struttura piramidale di comando di un tempo. Mafiosi, ma anche camorristi e ‘ndranghetisti hanno cambiato pelle. Hanno dovuto inventarsi nuovi business, oltre al pizzo o al contrabbando, dopo un’intensa azione repressiva dello Stato. Oggi sono manager. I loro figli studiano, in alcuni casi, a Londra. 

Com’è possibile che però uomini spesso rozzi, senza istruzione né cultura, tengano in scacco intere zone dell’Italia? 

Hanno appoggi più in alto, e a fianco, a loro. Senza voler per forza teorizzare il cosiddetto terzo livello. C’è una larga fetta della nostra società che è connivente, che crea la base di un vasto consenso sociale attorno alle mafie. Oggi, per fare affari, i mafiosi hanno ancor più bisogno di figure professionali che consentano loro di aprire attività legali per riciclare il denaro sporco, ad esempio. Ed ecco allora che il mafioso, il camorrista o lo ‘ndranghetista ha bisogno di avvocati, ingegneri, commercialisti, funzionari di enti pubblici. Non solo di uomini politici e imprenditori corrotti, massoni deviati o uomini di Chiesa compiacenti. Deve saper interloquire con altri poteri, saper intessere relazioni ai piani alti come ai piani bassi. Faccio un esempio storico: Raffaele Cutolo. Il capo della Nuova camorra organizzata negli anni ’80 fa il salto di qualità e diventa un criminale intoccabile perché viene chiamato in causa da altri poteri per risolvere un caso politico: il sequestro, da parte delle Br, dell’assessore all’Urbanistica della Regione Campania, Ciro Cirillo, che andava liberato. E così fu.

La trattativa fra Cosa Nostra e pezzi dello Stato, fra il 1992 e il 1994, per la quale è arrivata lo scorso aprile una storica sentenza di condanna dal tribunale di Palermo, cosa è stata, come va giudicata?

Nessuno di noi vuole uno Stato che scende a innominabili compromessi con la criminalità organizzata. Credo però che questa materia vada trattata con cautela, freddezza e la maggiore obiettività possibile. Siamo assolutamente certi che la trattativa è stato il male assoluto? Guardi, “trattative”, o se vogliamo chiamiamola una certa “tolleranza”, da parte delle istituzioni vengono messe in campo, di fatto, tutti i giorni in certe zone d’Italia. Lancio una provocazione: possibile che, ad esempio, Scampia a Napoli, arcinota per essere quantomeno una enorme piazza di spaccio, non possa essere liberata del tutto dalla criminalità? Credo che in casi come questo scatti un meccanismo in base al quale si temono conseguenze valutate, a torto o a ragione, per certi aspetti peggiori. Purtroppo, infatti, la camorra, come le altre organizzazioni mafiose, costituisce in alcune zone una sorta di Stato parallello in grado di garantire protezione sociale ed economica a centinaia di famiglie, sia pure sotto la minaccia del terrore più cupo.

Nel suo libro “I boss che hanno cambiato la storia della malavita” lei tratteggia i grandi criminali ma parla anche delle vittime. C’è un profilo che l’ha colpita maggiormente?

Voglio ricordare due ragazzi: Luigi Sequino e Paolo Castaldi, poco più che ventenni. Furono uccisi nel quartiere Pianura di Napoli nel 2000 mentre erano seduti in auto a parlare fra loro. Non avevano nulla a che fare con il crimine. Erano due giovani innocenti. Fu un’esecuzione camorristica: i killer li scambiarono per i guardaspalle di un boss avversario e li trucidarono, crivellandoli di colpi. Per assurdo è quasi peggio di certe vittime di mafia sciolte nell’acido in quanto familiari di boss nemici, a mio avviso. Nel senso che, nell’atroce logica criminale della mafia, lo sciogliere nell’acido è un folle crimine “punitivo”, come avvenne per il piccolo innocente Giuseppe Di Matteo, 15 anni, figlio del boss Santino. Nel caso di Sequino e Castaldi si tratta invece di persone innocenti massacrate solo perché erano fuori casa loro nel momento sbagliato. Ciascuno di noi avrebbe potuto trovarsi al posto loro. Bisogna sempre considerare, inoltre, il dolore di due intere famiglie: distrutte.

Da molto tempo sono in voga in Italia serie tv, fiction e film su mafia, camorra e ‘ndrangheta. Ci aiutano a prendere coscienza di cosa è il grande crimine organizzato o no?

Se penso alla Piovra degli anni ’80 sì. Era fatta benissimo. Fu quasi “profetica” come serie televisiva, nel senso che ci ha fatto vedere l’evoluzione della criminalità organizzata che poi si verificò negli anni successivi. Dopo, a mio avviso, c’è stato un eccesso. E forse oggi siamo a un punto di quasi inutilità di tutta questa produzione video. Del resto le fiction servono più per creare emozioni che per discernere e capire la realtà. C’è un film, del 2017, che mi è piaciuto per il modo, crudo e senza sconti, col quale ritrae la realtà della vita quotidiana sotto il gioco della camorra: L’equilibrio di Vincenzo Marra (presentato alla mostra del cinema di Venezia 74, ndr.). Guardarlo, anche più di una volta, può aiutare a capire molte cose.

Photo credits: Facebook e Twitter / Bruno De Stefano. Nella foto in primo piano, di Antonio Gibotta, lo scrittore con l’amatissimo gatto Eros

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