Quattro capelli di una persona ignota – che non appartengono cioè alla vittima e non sono attribuibili all’imputato Stefano Binda -, sono stati trovati sui resti di Lidia Macchi, la studentessa di Varese massacrata con 29 coltellate il 5 gennaio 1987. Lo hanno riferito i periti nel corso dell’udienza di oggi 9 gennaio – 31 anni dopo l’efferato omicidio ancora senza soluzione – davanti al gip di Varese Anna Giorgetti.
Una svolta che lascia attoniti. E al tempo stesso apre squarci di verità finora rimasti nell’ombra. A 31 anni da uno dei più oscuri misteri di sangue ancora irrisolti in Italia, l’assassinio di Lidia Macchi, la studentessa di Comunione e Liberazione di Varese uccisa il 5 gennaio 1987, un importante elemento probatorio inedito emerge nel corso del processo al presunto omicida Stefano Binda. E potrebbe contribuire a scagionarlo. Sui poveri resti della ragazza 21enne, riesumati nel marzo 2016, sono stati estrapolati circa 6 mila reperti tra peli e capelli. Fra questi, 4 capelli non appartengono a Lidia o a persone del suo gruppo familiare.
Ma non basta. Attraverso la comparazione con il Dna i periti hanno “escluso con certezza” che siano riconducibili a Binda, l’uomo accusato di aver ucciso la ragazza, sotto processo davanti alla Corte d’Assise di Varese. L’imputato, oggi presente in aula, si è sempre proclamato innocente. “Periti e consulenti sono giunti alla stessa conclusione – ha spiegato uno dei suoi difensori, l’avvocato Patrizia Esposito – i capelli non appartengono a Binda, e non si sa di chi siano”.
L’udienza di oggi 9 gennaio, spiega il sito web dell’Ansa, è stata dedicata agli accertamenti, disposti con la formula dell’incidente probatorio, sul cadavere di Lidia Macchi, riesumato, come detto, poco meno di due anni fa. Poche settimane prima, il 15 gennaio 2016, il vecchio compagno di liceo – e di militanza nel gruppo cattolico Comunione e Liberazione – di Lidia, Stefano Binda, 48 anni, era stato arrestato con l’accusa di essere l’assassino. I periti nominati dal giudice, tra cui l’anatomopatologa Cristina Cattaneo e il comandante del Ris di Parma Giampietro Lago, e i consulenti dei difensori di Binda e della Procura generale di Milano, hanno esposto i risultati delle lunghe analisi. Che lasciano intravedere possibili scenari clamorosi, nei quali potrebbe non essere più Stefano Binda l’accusato numero uno del massacro della studentessa 21enne.
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