Che rapporto c’è fra il nostro bisogno quasi compulsivo di postare la nostra vita su Internet e la realtà? Perché sia gli adulti che i ragazzi postano spesso sui social media scritti, immagini o video deliranti e offensivi, oppure intimi e riservatissimi? Siamo a conoscenza delle ripercussioni che ciò ha sulla vita degli altri e sulla nostra? Ne parliamo con la nota criminologa e psicologa forense Roberta Bruzzone.
La violenza e gli aspetti più scioccanti della cronaca di tutti i giorni in Italia sembrano avere sempre più a che fare con i social media, siano essi Facebook, WhatsApp o Twitter. Perché?
Perché non riusciamo, spesso, a resistere all’effetto platea che i social media in particolare, ma non soltanto loro, producono inesorabilmente.
Che cosa è l’effetto platea?
Molte persone, ma potremmo dire tutti in un certo senso, cercano su Facebook ad esempio, il consenso. Postare scritti, fotografie personali, video serve a raccogliere attorno a sé un “pubblico” speciale, tutto nostro, che assista allo “spettacolo” della nostra vita messa in mostra su un palcoscenico personale, i social, appunto.
Questo desiderio di alimentare il proprio pubblico virtuale può diventare ossessione?
Certo. È questo il punto. Per alcuni soggetti la possibilità offerta a ciascuno di noi dai social network di avere e alimentare costantemente un pubblico personale che plaude, incoraggia e si relaziona con noi – la capacità, quindi di creare consenso attorno a noi -, può diventare una distorsione mentale, una dipendenza, che poi porta a delirare, a postare commenti violenti che diventano l’anticamera di possibili atti violenti.
Di questi giorni è la notizia di un parroco bolognese che in un post scioccante su Facebook ha moralmente condannato un’adolescente che ha denunciato di essere stata stuprata, salvo poi chiedere scusa dopo il clamore della vicenda
Ecco in un caso come questo possiamo ipotizzare che il sacerdote, contravvenendo a ciò che noi tutti ci aspetteremmo da un prete, e quindi non certo la condanna della ragazza, abbia vissuto Facebook come il suo pulpito virtuale, lasciandosi andare a quello che è stato, di fatto, un delirio, probabilmente consciamente o inconsciamente credendo di poter restare in una sorta di impunità da tastiera.
Di segno del tutto diverso, ma sempre avendo a che fare con i social media, a Modena 60 ragazzine hanno postato su un gruppo WhatsApp fra loro, foto e video intimi, come una sorta di gioco. Solo che poi questo materiale è circolato in Rete…
Di questo caso mi occupo personalmente. Qui però la situazione è diversa. Chi posta non commette una qualche forma di giudizio o di violenza, ma, senza volerlo, finisce in un “gioco” molto più grande, esponendosi ai crimini peggiori della Rete, fra cui, in questo caso il rischio pedopornografia. Il caso è terrificante, per un motivo ancora più drammatico: le ragazze non solo sono riconoscibili, ma chi ha scaricato le foto dei loro corpi nudi o seminudi ha archiviato i file sul pc con nome e cognome di ciascuna ragazza. Le ragazze sono quindi potenzialmente ricattabili, oltre al fatto che i pedofili sono alla perenne ricerca sulla rete di foto e immagini pornografiche. E andare a rintracciare e bloccare tutti i siti su cui potrebbero finire le foto delle ragazze è, a oggi, praticamente impossibile.
Lei ha scritto anche un libro su queste tematiche: “Il lato oscuro dei social media”. Se dovesse dare un consiglio ai ragazzi e agli adulti, per un uso consapevole dei social, che cosa direbbe loro?
Primo comandamento: Dio perdona, la Rete e i social no. Quindi attenzione massima da parte di tutti alla natura e ai meccanismi di funzionamento di Facebook, WhatsApp, Twitter, YouTube e di tutti gli altri social media. Secondo comandamento: Tutto ciò che posti in Rete può ritorcersi contro di te. Vale a dire che ogniqualvolta noi postiamo un testo, una foto, un video, quel materiale non è più nostro, può finire chissà dove e un giorno qualcuno potrà usarlo contro di noi.
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