Dopo settimane di pressione internazionale, con le Nazioni Unite a parlare di “pulizia etnica da manuale”, e i colleghi di Nobel, fra cui Malala Yousafzai e Desmond Tutu, che l’hanno criticata apertamente per il suo prolungato silenzio, la leader birmana Aung San Suu Kyi, 72 anni, Premio Nobel per la Pace 1991, ha espresso parole di dispiacere e di condanna per ciò che accade nel suo Paese, il Myanmar, alla minoranza musulmana perseguitata dei rohingya.
“Sono profondamente addolorata e preoccupata” ha detto Suu Kyi per il “gran numero di musulmani che fuggono verso il Bangladesh”, e “condanno tutte le violazioni dei diritti umani che potrebbero aver esacerbato la crisi“. È la prima volta che in un discorso pubblico, davanti alle autorità militari del Myanmar e ai diplomatici stranieri, oggi 19 settembre, la Nobel per la Pace ha pronunciato parole nette su quella che l’Onu e Amnesty International denunciano come una crisi umanitaria gravissima.
PER L’ONU QUASI UN MILIONE DI PERSONE IN FUGA
Per l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Zeid Ra’ad al Hussein, ciò che è in atto nello Stato di Rakhine, nel nord della Birmania, è un “esempio di pulizia etnica da manuale“: sono almeno 400 mila nelle ultime settimane – 800 mila negli ultimi 12 mesi – i rohingya che sono stati costretti a fuggire in Bangladesh sotto gli assalti, gli omicidi, gli stupri, le esecuzioni, i roghi dei villaggi compiuti dall’esercito birmano.
ARRIVERANNO GLI OSSERVATORI INTERNAZIONALI?
Aung San Suu Kyi ha inoltre precisato di non temere “lo scrutinio internazionale” e ha invitato i rappresentanti esteri a verificare di persona la situazione. La Missione d’inchiesta sui diritti umani dell’Onu ha subito chiesto un “accesso illimitato al Paese” per poter stabilire “fatti e circostanze”. “Non intendiamo prendercela con altri o negare responsabilità” ha aggiunto Suu Kyi, e sulla base delle “leggi vigenti”, ha sottolineato, intende punire ogni eventuale responsabile di abusi.
UN CONFLITTO INTERMINABILE
Quello fra i birmani buddisti, sobillati oltreché dai militari anche da alcuni monaci ultra nazionalisti (il buddismo è religione di Stato) e i rohingya musulmani è un conflitto etnico e religioso che va avanti da decenni in Myanmar (il nuovo nome della Birmania). Negli ultimi anni si è verificata una escalation della violenza da ambo le parti nello stato del Rakhine, o Arakan. Dalla minoranza islamica è sorto l’Esercito di salvezza dei Rohingya dell’Arakan (Arsa) che in parte terrorizza gli stessi rohingya, e che combatte la crescente violenza delle forze armate birmane.
QUANTO CONTA DAVVERO AUNG SAN SUU KYI?
Aung San Suu Kyi, simbolo della lotta per i diritti umani, civili e politici, messa per lunghi anni agli arresti domiciliari dalla giunta militare, dal 2016 è ministro degli Esteri e Consigliere di Stato, un ruolo, di fatto, di Primo Ministro. Tuttavia non controllerebbe i posti chiave del governo, ancora in mano ai militari, ed è impegnata nella salvaguardia della lunghissima transizione birmana verso la democrazia (le prime elezioni libere dal colpo di stato del 1962 si sono svolte soltanto nel 2015 e hanno visto il trionfo di Suu Kyi). Così si spiegherebbe, secondo alcuni analisti, il silenzio in parte complice della “Lady” sul massacro in corso dei rohingya. Fino a oggi.
Photo credits: Twitter
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