Sette anni di sparatorie e omicidi con i fratelli Roberto e Fabio e altri complici: Alberto Savi esce di carcere dopo 23 anni grazie ad un permesso premio.
Li chiamavano la banda della Uno bianca, furono un’organizzazione criminale operante in Italia, in particolare in Emilia-Romagna, tra la fine degli anni ottanta e la prima metà degli anni novanta del XX secolo. Li avevano soprannominati così per via della macchina che sceglievano per i loro misfatti: facile da rubare, difficile da identificare. Tutto iniziò il 19 giugno 1987, con l’assalto al casello autostradale di Pesaro, e finì con l’arresto del 26 novembre 1994.
Alberto Savi, l’ex poliziotto condannato all’ergastolo perché parte della banda omicida, ha chiesto e ottenuto per la prima volta dopo 23 anni di carcere un permesso premio: dodici ore di libertà, dalle 8 alle 20, di cui ha già beneficiato trovando ospitalità in una comunità protetta. Savi è detenuto nel carcere di Padova. Contro il permesso premio, come riportano i giornali locali, si era schierata la Procura della Repubblica, presentando un ricorso al via libera dato a dicembre dal giudice di sorveglianza. Il via libera è arrivato lo stesso dopo il parere favorevole del team di esperti (psichiatri e psicologi) che lo ha analizzato e grazie anche alle relazioni dal carcere che lo classificano come detenuto modello impegnato anche in attività lavorative al Due Palazzi.
Sulla decisione potrebbe aver pesato anche la volontà di Savi di chiedere perdono per quanto fatto, messa nero su bianco in una lettera inviata all’arcivescovo di Bologna, monsignor Matteo Zuppi, nel settembre scorso. La missiva era stata subito contestata: «Ma quale fratello buono, era come Fabio e Roberto. Era tra i killer che uccisero i carabinieri al Pilastro il 4 gennaio 1991. Ho letto che Zuppi gli ha risposto mesi dopo che il perdono se lo devono meritare» aveva commentato, per esempio, Rosanna Zecchi, presidente dell’Associazione familiari vittime della Uno bianca. Alla fine, però, 12 ore di libertà gli sono state concesse.
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