Chi sono i responsabili egiziani delle torture – fino a farlo morire – del ricercatore friulano? L’Italia si accontenterà di una mezza verità o andrà fino in fondo a costo di pagare i “buoni rapporti” politici e commerciali col Cairo? Perché i professori inglesi di Giulio non collaborano alla ricerca della verità?
“L’ambasciatore italiano non deve tornare in Egitto: si darebbe un segnale di distensione che non è il caso di dare”. Così i genitori di Giulio Regeni. Paola e Claudio Regeni sono tornati a dire la loro in occasione, mercoledì 25 gennaio, del primo anniversario della sparizione del ricercatore friulano al Cairo (Giulio fu ritrovato cadavere, massacrato dalle torture, ai bordi di una strada il 3 febbraio 2016). Di quella tragica morte il papà e la mamma di Giulio e tutti gli italiani ancora sanno poco o nulla. Nei giorni scorsi è stato reso noto un video in cui per la prima volta si vede Giulio in Egitto nelle ore precedenti la sua sparizione definitiva. Parla con Mohamed Abdullah, capo degli ambulanti, che ha ammesso di averlo tradito. Per lui però è “un vanto”, poiché Giulio era considerato una “spia”. Il video confermerebbe le responsabilità delle forze di sicurezza egiziane nel brutale assassinio di Regeni.
LA MORTE NEGLI OCCHI
“Sembra che ci siano dei segnali”, hanno aggiunto Paola e Claudio Regeni, sul versante delle indagini, grazie soprattutto al grande lavoro della Procura di Roma, ma “da qua a dire che c’è una reale cooperazione e un’ apertura strabiliante” da parte delle autorità egiziane “assolutamente no“, hanno sottolineato. “Giulio ha capito: qua è la fine per me: morire piano piano in vita. E questo è terribile”, ha detto la mamma del 28enne massacrato al Cairo. Si riferiva alla “paura che Giulio ha vissuto” durante le drammatiche torture “la quale – ha aggiunto con forza – non è la paura di una persona codarda” perché Giulio era in Egitto “per andare incontro alle persone”.
IL RICORDO DEGLI ITALIANI
Nel giorno del primo anniversario della sparizione del ricercatore, che lavorava all’Università di Cambridge, in Inghilterra, si sono svolte fiaccolate in 24 città italiane e una manifestazione nazionale a Roma. Migliaia di persone si sono raccolti attorno a quella scritta nera su fondo giallo che ancora campeggia all’esterno di molti edifici (palazzi istituzionali, case private, scuole e università): Verità per Giulio Regeni. È la richiesta che da dopo il ritrovamento di Giulio, il 3 febbraio 2015, simboleggia l’attenzione di tutti al caso del ricercatore torturato e barbaramente ucciso. E che campeggerà ancora, fra le tendenze più discusse in rete, sui social, in vista della prossima data utile per tornare a domandare verità e giustizia: il prossimo 3 febbraio, appunto.
NEL PAESE DELLE MEZZE VERITA’
Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, se da un lato la verità sembra avvicinarsi – Giulio sarebbe stato “consegnato” alla polizia dopo essere stato tradito dal capo degli ambulanti egiziani sui cui diritti e sulle cui lotte sindacali il ricercatore stava svolgendo il suo lavoro – da un altro lato non ci si deve accontentare di “una verità di comodo”. Ossia una verità parziale che, sostiene Noury, metterebbe d’accordo lo Stato egiziano e lo Stato italiano, partner reciproci in molti affari commerciali: Giulio vittima di “mele marce all’interno di un cesto sano”. E non una delle troppe vittime di uno Stato di polizia, dove la tortura e le sparizioni di massa sono moltissime ogni anno. Se l’Italia accettasse una verità parziale sul caso di Giulio, dato che, potremmo sentirci dire, “qualcosa è meglio di niente”, si avvererebbe la massima di una canzone cantata qualche anno fa da Gianna Nannini in coppia con Fabri Fibra: l’Italia come Paese “delle mezze verità”.
ITALIA ED EGITTO, UN ABBRACCIO MORTALE?
Viste dall’Inghilterra, la “patria” d’adozione di Giulio Regeni, che lì lavorava all’Università di Cambridge, le cose possono forse essere percepite da un punto di vista più distaccato. “Siamo in una situazione di stallo“, ha dichiarato al Guardian un funzionario italiano rimasto volutamente anonimo (l’articolo è online, intitolato: A year on, Giulio Regeni death casts shadow over Italy-Egypt relations). Il Governo italiano, secondo il prestigioso giornale britannico, “è stato alle prese con se – e come – porre fine alla sua situazione di stallo con il Cairo dati altri pressanti problemi di politica estera, in particolare in relazione a un peggioramento della crisi in Libia, dove l’Egitto esercita un’enorme influenza.” Un ex ambasciatore della Nato in Italia, Stefano Stefanini, citato dal quotidiano, dichiara: “Abbiamo idealmente bisogno di tanta diplomazia regionale in Libia e il caso Regeni è una pietra d’inciampo“.
PERCHE’ CAMBRIDGE TACE?
Ma il povero Giulio sembra essere diventato da tempo una pietra d’inciampo anche per i suoi docenti inglesi di Cambridge. Non fa onore alla verità e neppure al blasone della celebre università britannica il silenzio dei professori, che nulla dicono né collaborano con i magistrati italiani. Ma perché? Sarebbe una scelta “fatta dai legali che tutelano gli interessi dell’Università” per metterla al riparo da “possibili richieste di risarcimento danni per eventuali responsabilità nella mancata tutela della sicurezza del ragazzo”. A sostenerlo è stato, lo scorso mese di giugno, Federico Varese, docente di Oxford, intervistato da Repubblica.
MA GLI STUDENTI SI MOBILITANO
Non è tutto così, però. Da un anno ormai gli studenti compagni di Regeni sono mobilitati. In Inghilterra e in Italia. Sui social, con meeting e manifestazioni nelle piazze. Ed è cominciata una nuova campagna in Inghilterra: Amnesty e la University and College Union hanno organizzato una serie incontri pubblici presso le università del Regno Unito per evidenziare la necessità che i killer di Regeni siano portati davanti alla giustizia. L’incontro alla Cambridge University si terrà il 14 febbraio prossimo. La ricerca della verità per Giulio non si ferma.
Photo credits: Twitter
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