Sempre più spesso in Italia i lavoratori fanno ricorsi contro la perdita del posto di lavoro a causa del massiccio uso del social in orario di ufficio
Sono sempre di più in Italia i licenziamenti legati all’abuso di Facebook e Twitter sul posto di lavoro. Nell’era dei social network – complice la nuova disciplina legale introdotta con il Jobs Act, la riforma del mercato del lavoro voluta dal Governo Renzi – sono cioè all’ordine del giorno in Italia le sentenze sui ricorsi presentati da lavoratori licenziati per l’utilizzo improprio dei social nell’orario di ufficio.
Secono LiberoQuotidiano.it il presidente dell’Agi Aldo Bottini ha analizzato la situazione e ha individuato due motivi fondamentali: da una parte l’assenteismo virtuale, ovvero stare al computer ma farsi i fatti propri, dall’altra le violazioni dell’obbligo di fedeltà e riservatezza imposte al lavoratore dal Codice civile. Ecco alcuni esempi che il sito web riporta: pubblicare su Facebook lo stato “la mia azienda sfrutta i dipendenti” è diffamazione.
Pubblicare foto e video riservati, dove magari si mostrano dei prodotti che potrebbero agevolare la concorrenza, è ingiuria, viene violato il contratto di riservatezza. Non importano i filtri per la privacy che un utente può impostare sul social network, Facebook è per sua natura di massa e caratterizzato da una diffusione incontrollabile. Dunque, come può intervenire un’azienda, si chiede LiberoQuotidiano. Alcune possibili soluzioni: stabilire una policy aziendale, ad esempio in soldoni “controllo Facebook ma te lo devo dire”, oppure intervenire in modo più invasivo, monitorando gli accessi e il e il tempo passato online, ma non quali pagine sono state visitate dal dipendente. Altra strada, vietare i social tout-court con un filtro informatico.
Photo credits: Twitter, Facebook
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