Il consiglio d’Europa ha accettato un ricorso presentato dalla Cgil, dove si denuncia come in Italia sia difficile abortire nelle strutture pubbliche e come i medici non obiettori vengano discriminati.
“Le donne in Italia continuano a incontrare notevoli difficoltà nell’accesso ai servizi d’interruzione di gravidanza, nonostante quanto previsto dalla legge 194 sull’aborto. L’Italia viola quindi il loro diritto alla salute”. Questo è quanto si legge nel documento presentato dalla Cgil al Consiglio d’Europa. Parole molto dure che continuano, descrivendo gli ostacoli dei medici non obiettori di coscienza, spesso discriminati, vittime di diversi svantaggi lavorativi diretti e indiretti. Il sindacato allega al documento una serie di prove di questo trattamento differente, riservato ai medici che scelgono di praticare l’interruzione di gravidanza. Lo stesso comitato europeo sottolinea come il governo italiano non ha offerto nessuna prova contro le accuse della Cgil. A limitare la possibilità di abortire, secondo Strasburgo, è la mancanza di strutture sanitarie adatte per la pratica sul territorio nazionale.
Soddisfatta per la decisione Susanna Camusso, segretario generale della Cgil: “Una sentenza importante perché ribadisce l’obbligo della corretta applicazione della legge 194, che non può restare soltanto sulla carta. Il sistema sanitario nazionale, deve poter garantire un servizio medico uniforme su tutto il territorio nazionale, evitando che la legittima richiesta della donna rischi di essere inascoltata. Questa decisione del Consiglio d’Europa riconferma che lo Stato deve essere garante del diritto all’interruzione di gravidanza libero e gratuito affinché le donne possano scegliere liberamente di diventare madri e senza discriminazioni, a seconda delle condizioni personali di ognuna“. Immediata la risposta della ministra della salute Beatrice Lorenzin: “Mi riservo di approfondire con i miei uffici, ma sono molto stupita perché dalle prime cose che ho letto mi sembra si rifacciano a dati vecchi che risalgono al 2013. Il dato di oggi è diverso. Non c’è alcuna violazione del diritto alla salute”
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